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sabato 5 dicembre 2009

federico rampini

New York 5:30 a.m. Vita da new urbanist
I pentiti della american way of life lasciano le ville in periferia. e tornano a Manhattan

di FedericoRampini

Illustrazione di Air Studio - Foto di C.Kurz/Laif/Contrasto

Ho sempre amato abitare in quelle città dove si vive bene senza possedere un'automobile, e anzi averne una è solo fonte di problemi. Come Parigi, dove ci si sposta ovunque in metrò, mentre parcheggiare un'auto è un incubo. Oppure San Francisco, la cui dimensione umana consente di spostarsi a piedi o in bici dal centro alla spiaggia. (Pechino per me fu un'eccezione ma non la considero una città: con 17 milioni di abitanti è un piccolo stato. In compenso riuscii ad abitare in un quartiere di vicoli antichi, Xicheng-Houhai, che è una specie di grande isola pedonale). Adesso dunque mi trovo a mio agio a New York, l'unica città al mondo che ha più taxi che auto private. E dove il metròocircola tutta la notte senza interruzione. Dove ci sono perfino i treni - sconosciuti in gran parte degli Stati Uniti - se vuoi andare a Long Island o spingerti fino a Boston, Philadelphia, Washington. Questa mia predilezione personale è antica, è un fatto di gusti, non nasce da scelte ideologiche. Adesso però scopro che viene abbracciata con entusiasmo da un numero crescente di americani. Il Wall Street Journal che gli ha dedicato un'inchiesta, li definisce i New Urbanist. Sono i pentiti dell'American Way of Life. Quelli che dicono addio alla villa con giardino, lasciano i sobborghi residenziali, si riconvertono alla giungla di cemento tra i grattacieli di Manhattan o le townhouse di Brooklyn. Molti sono anche dei Third Life Boomer. Traduzione: sono miei coetanei, cioè baby-boomer arrivati a quella fase della vita in cui non hanno più i figli in casa. Il fenomeno recentissimo di questa migrazione alla rovescia, cioè il ritorno nei centri cittadini ha, questo sì, una connotazione ideologica. La lunga recessione ha reso tutti più attenti ai costi, a cominciare da quelli dell'auto e dei consumi energetici che divorano una bella quota dello stipendio. E poi c'è Obama che un giorno sì e uno no spiega agli americani - finalmente - tutto quello che era sbagliato nello stile di vita precedente. C'è il problema della dipendenza petrolifera dal Medio Oriente. C'è il cambiamento climatico. È sotto la pressione di queste emergenze che si scopre una realtà a prima vista sconcertante: Manhattan con i suoi grattacieli è l'archetipo di uno stile di vita "verde". Proprio così. L'abitante di New York in media consuma una frazione dell'energia dell'americano medio. Se l'emissione di CO2 pro capite negli Usa è 19,8 tonnellate all'anno, il newyorchese si avvicina invece alla media tedesca che è di 10,4. Questo è dovuto a tante ragioni, alcune immediatamente evidenti, altre meno. L'uso dei trasporti pubblici viene subito in mente: chi vive nelle villette con giardino è schiavo dell'auto, macina centinaia di chilometri a settimana per andare al lavoro, accompagnare i figli a scuola, fare la spesa mentre noi animali di Manhattan facciamo tutte queste cose a piedi, in metrò, in autobus. Meno evidente ma altrettanto importante è il risparmio di energia per riscaldarsi. D'inverno tener calda una villa monofamiliare comporta uno spreco di gas o gasolio o elettricità. Vivere in un appartamento dentro un grattacielo significa usufruire di economie di scala: io riscaldo un po' il mio vicino e lui riscalda me, abitando tutti così vicini riduciamo di molto la dispersione di calore. I risparmi si allargano in tante direzioni inattese. Il semplice fatto che il metro quadro costi più caro a New York, fa sì che inevitabilmente tutti si devono accontentare di vivere in appartamenti più piccoli, rispetto alle dimensioni delle ville nei sobborghi. Quindi tutti i consumi si riducono proporzionalmente, quando la vita si restringe. Perfino nel mangiare. L'americano dei sobborghi di solito possiede un frigo in cui può stipare un bue intero. Quando va a fare la spesa riempie il suo Suv con quintali di cibarie. A Manhattan, miliardari esclusi, abbiamo tutti cucine piccole e frigoriferi su scala ridotta. Compriamo meno roba, non c'è spazio per quelle confezioni giganti (il gallone di latte, l'offerta con 12 hamburger surgelati al prezzo di 8). Qundi sprechiamo meno, perché è risaputo che quando i frigoriferi straripano di roba, una percentuale assurda di cibo va a male e finisce nella spazzatura. Forse le api e le formiche l'hanno sempre saputo. Vivere tutti insieme, appiccicati gli uni agli altri, è la soluzione più efficiente per non distruggere il pianeta. L'alveare di Manhattan ha un vantaggio in più: è anche divertente.

martedì 1 dicembre 2009

nyc.Federico Rampini

razziale si trova ovunque in questa città. Ma nel privato?

di FedericoRampini

Illustrazione di Air Studio - Foto di Getty

Attraversando Brooklyn ho sentito l'affetto degli italoamericani gridato con gioia dai due lati della strada. Poi sono apparse le chiese dei neri, e interi cori di gospel ci scaldavano il cuore al passaggio. Quindi c'è stato l'attraversamento del quartiere degli ebrei ortodossi, e lì di colpo pareva che la macchina del tempo ci avesse trasportati alla fine dell'Ottocento, in un villaggio yiddish dell'Europa centrale. Sono alcuni dei ricordi più belli della maratona di New York. Era la prima volta che la correvo in questa città e ho capito perché è la maratona più famosa del mondo. New York in quell'occasione rivela il suo animo generoso, festaiolo, giocondo, come se fosse una grande Napoli, o Rio de Janeiro. Ma ancora più cosmopolita, più eterogenea. Le immagini che scorrevano davanti ai miei occhi mentre attraversavo Staten Island e Brooklyn, Queens, il Bronx e infine Manhattan, mi sono rimaste nella mente a lungo, dopo che si sono spenti gli echi della maratona. Erano le immagini di una convivenza multietnica che si svolge in modo civile, pacifico, perfino armonioso. Quel giorno la società newyorchese offriva ai concorrenti venuti dal mondo intero una specie di riassunto visivo della società umana, di tutte le razze, tutte le musiche, tutti i modi di far festa. Al tempo stesso, tornando a casa mia nell'Upper West side di Manhattan sono stato assalito da una domanda: in quanti di quei pezzi di quartieri io forse non avrei mai messo piede, se non fossero stati sul percorso deciso dagli organizzatori? In quanti angoli di Brooklyn o del Bronx potrei non tornare, se non alla prossima maratona? Queste domande ne trascinano altre. New York è senza dubbio la città più multietnica dove io abbia vissuto: più ancora di Parigi e perfino più di San Francisco (che è piena di asiatici e ispanici, sì, ma ha confinato i neri oltre il ponte della Baia, a Oakland). Ogni mattina incontro afroamericani che fanno i poliziotti o gli addetti alla metropolitana; è nero l'usciere del palazzo dove la Repubblica ha l'ufficio di corrispondenza. Sono nere le cassiere di Whole Foods e The Food Emporium dove faccio la spesa. Sono latinoamericani i camerieri di Starbucks e del mio bar preferito, il caffè cubano all'incrocio fra Broadway e la 41esima. Sono cinesi i proprietari della tintoria dove porto a stirare le camicie, cinesi i gestori della tavola calda sotto l'ufficio. Vivo immerso in questa mescolanza di razze diverse, e non ho mai sentito accenni di tensione. Ma quando la sera vado al ristorante con amici, o al Metropolitan Opera, o a Carnegie Hall, o al cinema, o a teatro al Village, quante probabilità ci sono che nel gruppo dei miei conoscenti ci siano un nero, un cinese, un messicano? Poche. Eppure, avendo già vissuto in America, al mio ritorno ho ritrovato una rete di amicizie. E faccio un mestiere ad alta intensità di relazioni. Infatti mi succede di frequentare per ragioni professionali degli americani "non-caucasici" (noi bianchi e di origine europea in base alle classificazioni del Census Bureau siamo "caucasici"). Nei miei rapporti con l'Amministrazione Obama incontro regolarmente alti dirigenti neri o asiatici. E anche nel descrivere la vita quotidiana a New York non vorrei aver dato l'impressione che i neri e i latinos si trovino solo nelle mansioni più umili. È multietnica anche Wall Street. La diversità razziale si trova anche dentro prestigiose law firms, i grandi studi di avvocati. Ma una volta che ci si ritira nel privato, nella routine della vita post-professionale, con gli amici intimi, ecco che la varietà multietnica tende a ritirarsi come la bassa marea. È un'osservazione che condivide Orlando Patterson, sociologo di Harvard, uno dei più autorevoli studiosi della questione razziale. "Viviamo ancora - sostiene Patterson - in una società frammentata dal punto di vista razziale. Nel privato delle nostre famiglie, dei nostri quartieri, esiste ancora una segregazione. Religiosamente siamo più praticanti e osservanti di ogni altra nazione sviluppata, ma lo siamo all'interno di chiese e sinagoghe che definiscono le nostre identità e differenze etniche". L'elezione di Obama ha cambiato poco. Ancora prima che lui arrivasse alla Casa Bianca, gli afroamericani avevano conquistato un'influenza perfino sproporzionata in certi settori: la moda giovanile, lo sport, la musica, alcuni filoni della produzione artistica, cinematografica e teatrale. Ma poi davanti all'altare o a scuola il livello di mescolanza e integrazione si dirada come un miraggio. E New York assomiglia allo spettacolo della maratona: uno scorrere di immagini di etnìe diverse. Ciascuna davanti a casa sua.