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martedì 1 dicembre 2009

nyc.Federico Rampini

razziale si trova ovunque in questa città. Ma nel privato?

di FedericoRampini

Illustrazione di Air Studio - Foto di Getty

Attraversando Brooklyn ho sentito l'affetto degli italoamericani gridato con gioia dai due lati della strada. Poi sono apparse le chiese dei neri, e interi cori di gospel ci scaldavano il cuore al passaggio. Quindi c'è stato l'attraversamento del quartiere degli ebrei ortodossi, e lì di colpo pareva che la macchina del tempo ci avesse trasportati alla fine dell'Ottocento, in un villaggio yiddish dell'Europa centrale. Sono alcuni dei ricordi più belli della maratona di New York. Era la prima volta che la correvo in questa città e ho capito perché è la maratona più famosa del mondo. New York in quell'occasione rivela il suo animo generoso, festaiolo, giocondo, come se fosse una grande Napoli, o Rio de Janeiro. Ma ancora più cosmopolita, più eterogenea. Le immagini che scorrevano davanti ai miei occhi mentre attraversavo Staten Island e Brooklyn, Queens, il Bronx e infine Manhattan, mi sono rimaste nella mente a lungo, dopo che si sono spenti gli echi della maratona. Erano le immagini di una convivenza multietnica che si svolge in modo civile, pacifico, perfino armonioso. Quel giorno la società newyorchese offriva ai concorrenti venuti dal mondo intero una specie di riassunto visivo della società umana, di tutte le razze, tutte le musiche, tutti i modi di far festa. Al tempo stesso, tornando a casa mia nell'Upper West side di Manhattan sono stato assalito da una domanda: in quanti di quei pezzi di quartieri io forse non avrei mai messo piede, se non fossero stati sul percorso deciso dagli organizzatori? In quanti angoli di Brooklyn o del Bronx potrei non tornare, se non alla prossima maratona? Queste domande ne trascinano altre. New York è senza dubbio la città più multietnica dove io abbia vissuto: più ancora di Parigi e perfino più di San Francisco (che è piena di asiatici e ispanici, sì, ma ha confinato i neri oltre il ponte della Baia, a Oakland). Ogni mattina incontro afroamericani che fanno i poliziotti o gli addetti alla metropolitana; è nero l'usciere del palazzo dove la Repubblica ha l'ufficio di corrispondenza. Sono nere le cassiere di Whole Foods e The Food Emporium dove faccio la spesa. Sono latinoamericani i camerieri di Starbucks e del mio bar preferito, il caffè cubano all'incrocio fra Broadway e la 41esima. Sono cinesi i proprietari della tintoria dove porto a stirare le camicie, cinesi i gestori della tavola calda sotto l'ufficio. Vivo immerso in questa mescolanza di razze diverse, e non ho mai sentito accenni di tensione. Ma quando la sera vado al ristorante con amici, o al Metropolitan Opera, o a Carnegie Hall, o al cinema, o a teatro al Village, quante probabilità ci sono che nel gruppo dei miei conoscenti ci siano un nero, un cinese, un messicano? Poche. Eppure, avendo già vissuto in America, al mio ritorno ho ritrovato una rete di amicizie. E faccio un mestiere ad alta intensità di relazioni. Infatti mi succede di frequentare per ragioni professionali degli americani "non-caucasici" (noi bianchi e di origine europea in base alle classificazioni del Census Bureau siamo "caucasici"). Nei miei rapporti con l'Amministrazione Obama incontro regolarmente alti dirigenti neri o asiatici. E anche nel descrivere la vita quotidiana a New York non vorrei aver dato l'impressione che i neri e i latinos si trovino solo nelle mansioni più umili. È multietnica anche Wall Street. La diversità razziale si trova anche dentro prestigiose law firms, i grandi studi di avvocati. Ma una volta che ci si ritira nel privato, nella routine della vita post-professionale, con gli amici intimi, ecco che la varietà multietnica tende a ritirarsi come la bassa marea. È un'osservazione che condivide Orlando Patterson, sociologo di Harvard, uno dei più autorevoli studiosi della questione razziale. "Viviamo ancora - sostiene Patterson - in una società frammentata dal punto di vista razziale. Nel privato delle nostre famiglie, dei nostri quartieri, esiste ancora una segregazione. Religiosamente siamo più praticanti e osservanti di ogni altra nazione sviluppata, ma lo siamo all'interno di chiese e sinagoghe che definiscono le nostre identità e differenze etniche". L'elezione di Obama ha cambiato poco. Ancora prima che lui arrivasse alla Casa Bianca, gli afroamericani avevano conquistato un'influenza perfino sproporzionata in certi settori: la moda giovanile, lo sport, la musica, alcuni filoni della produzione artistica, cinematografica e teatrale. Ma poi davanti all'altare o a scuola il livello di mescolanza e integrazione si dirada come un miraggio. E New York assomiglia allo spettacolo della maratona: uno scorrere di immagini di etnìe diverse. Ciascuna davanti a casa sua.

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